Giuseppe Milani

 
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Giuseppe Milani

 

Da: "itinerario biografico" www.giuseppemilani.it/

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La scelta di diventare architetto fu un compromesso tra diverse volontà non troppo chiaro neppure per me. In famiglia avrebbero voluto un ingegnere, ma  ero più attratto dagli studi umanistici. Allora avevo molti interessi ma non conoscevo niente e nessuno che avesse attivamente a che fare con l’Architettura.

Valle Giulia era egemonizzata da una casta di accademici sopravvissuti alle blande epurazioni antifasciste del dopoguerra, arretrati, pigri e indifferenti ai problemi della didattica: il biennio fu per me una tortura nel cieco inseguire quel che non mi veniva mai spiegato.

Nel corso di Composizione del terzo anno affrontai il docente che, nella revisione settimanale, ferocemente (e giustamente) criticava tutto quanto gli sottoponevo e lo sfidai a indicarmi esempi e modelli da seguire. Mi si aprì allora per la prima volta un mondo di immagini, passai una settimana su “Poetica dell’architettura Neoplastica” di Zevi e presentai il progetto di una palazzina al Nomentano in puro stile Van Doesburg. Sono ancora grato a Claudio Dall’Olio per la sua chiara e stimolante ruvidezza così lontana dalla sonnolenta indifferenza dei docenti di quegli anni.

Da quel momento cominciai a capire cosa andavo facendo e quel che avrei potuto fare.

Cominciai a scegliere tra orientamenti, tendenze, letture e soprattutto tra compagni di percorso. Allora si formò la mia coscienza politica.

uno

Quando nel 1960 il disagio degli studenti dei corsi di Composizione di Saverio Muratori sfociò in una vera e propria rivolta con blocco della didattica, rifiuto dei temi assegnati e proposta di temi alternativi, io mi trovai nel gruppo dei più attivi.

Quel gruppo diede luogo a un coordinamento che continuò oltre la rivolta e che poco dopo chiamammo GRAU, Gruppo Romano Architetti Urbanisti.

La forte connotazione politica portava a un vero e proprio studio e discussione in gruppo dei testi filosofici che ritenevamo i nostri riferimenti teorici: leggevamo e discutevamo insieme Marx e il Della Volpe della “Critica del Gusto”. Si producevano documenti individuali o collettivi, che a loro volta erano sottoposti a discussione.

Anche nel fare architettura- produzione teorica e progettazione- si lavorava con procedure collettive: le fasi istruttorie e intermedie di ogni progetto erano discusse in forma assembleare. Dagli ultimi esami, presentati spesso in forma collettiva, si passò ai primi concorsi e progetti professionali, che venivano assegnati dal collettivo ad un gruppo di lavoro ristretto e sottoposto a revisioni periodiche.

Economicamente eravamo una cooperativa: spese e guadagni divisi in parti uguali.

Il GRAU appariva all’esterno minacciosamente disciplinato e teoricamente compatto, molto più di quanto fosse realmente al suo interno. Questa struttura rigida fatta di interminabili discussioni ci aiutò ad affinare una sintassi di forme in comune e alcuni strumenti teorici per la progettazione, così rari in quegli anni di rapida dissoluzione di miti e forme del Moderno.

due

Ci muovevamo entro le coordinate marxiane di un'Arte come conoscenza e ricreazione delle determinazioni storiche del presente. In particolare  eravamo convinti che la continuità storica delle logiche e delle forme artistiche  potesse fornire gli strumenti per evitare la stanca e vuota ripetizione del linguaggio tardomoderno che avevamo ereditato.  Questo ci poneva in opposizione sia con l’Accademia di derivazione crociana, ancora presente nell’Università, sia con le suggestioni del verbo organicista di matrice socialdemocratica, allora molto diffuso. Ma soprattutto ci forniva un’efficace chiave di lettura delle forme del passato, che contro ogni tentazione storicistica, ritenevamo potessero essere assunte nella loro astrazione logico geometrica come contemporanee e interagire nella progettazione. Approfondimmo così le caratteristiche del segno architettonico, razionale ma polisemico, di natura tridimensionale - geometrica e non riferibile a significati verbali.

Nella seconda metà degli anni ’60 la ricerca sulla geometria delle forme elementari euclidee, che fu da tutti sviluppata con rigore (a volte con rigidezze illuministiche), fu ben presto ampliata alla complessità geometrica delle trasformazioni proiettive: simmetrie parziali e concatenate, traslazioni, ribaltamenti, variazioni di scala.

Chiamammo tali relazioni tra le parti ”leggi aggregative” del progetto, in rapporto complementare con ”moduli plastici”, elementi minimi significanti su cui esse si applicavano.

Personalmente ero affascinato dalla scoperta di queste categorie che mi permettevano di razionalizzare il processo progettuale e, soprattutto, mi fornivano strumenti per comunicare, discutere con i compagni del GRAU e modificare forme nell’atto stesso della progettazione. Un metodo a volte gioioso, per me opposto al solitario cupo e ottuso modo di progettare che avevo subìto in Facoltà negli anni precedenti.

Quando un giorno, sfogliando un numero di “Architecture d’aujour d’hui” vidi un disegno dei prospetti del Salk di San Diego ebbi un’illuminazione: Kahn, che nessuno di noi ancora conosceva, lavorava con gli stessi materiali che noi andavamo elaborando. Portai la scoperta nel gruppo, tutti ne furono fortemente influenzati e, poco dopo, aiutato dalla monografia di Scully appena uscita in Italia, scrissi un lungo testo, che lessi in Facoltà.

tre

All’inizio degli anni ’70 nel GRAU cominciarono a manifestarsi tendenze individuali differenziate. Ognuno di noi reagì diversamente all’affiorare del progetto politico–culturale che investiva allora i giovani e la Sinistra. Alcuni abbandonarono temporaneamente la ricerca comune per dedicarsi a tempo pieno alla politica attiva; io, come altri, ero convinto che gli strumenti per cambiare le cose fossero là dove era il mio lavoro culturale, nella ricerca architettonica. Nei fatti però si andava frantumando anche il comune campo della ricerca  e il dibattito interno sulla produzione architettonica che ci aveva tenuto uniti si esauriva.  Sebbene la morte del GRAU sia stata decretata ufficialmente solo nel 1980, tutto il decennio precedente segnò per ognuno la ricerca di una direzione individuale.

Per me il rigido linguaggio astratto geometrico degli anni precedenti, nella sua immobilità teorica mostrava tutti i suoi limiti rispetto alla realtà in veloce cambiamento. In un primo breve momento credetti (con pochi altri) di forzare i significati di quanto andavo producendo con l’introduzione di vere e proprie narrazioni storiche in forma di figurazioni di miti. Il progetto per il Parco della Resistenza a Modena (1970) rappresenta l’entusiasmo un poco ingenuo per questa scoperta, della quale sono debitore a Franco Pierluisi, che seppe continuare quella ricerca nel progetto di concorso per l’Archivio di Stato di Firenze e negli splendidi disegni.

Questa fase presto si esaurì non senza avermi aperto nuove più sicure strade da esplorare. La necessità della figurazione si era imposta prepotentemente ed era ormai chiaro che questa avrebbe dovuto investire il linguaggio della stessa Architettura non più ridotta a cornice di narrazioni. Il linguaggio architettonico doveva esso stesso produrre figure capaci di interagire con il contemporaneo; questo avvenne sia attraverso l’elaborazione di citazioni/rielaborazioni di materiali storici, sia attraverso la ricerca di nuovi segni icastici, in quanto differenti dal contesto.

I procedimenti che sperimentavo erano ora per me quelli della metafora e più in generale delle figure della retorica classica, in quanto produttrici di figure poetiche.

Analogamente a quanto si andava osservando nei procedimenti figurativi della Pop Art, il tentativo di tradurre in architettura le manipolazioni retoriche del linguaggio verbale fu per me il nuovo strato di ricerca che si sedimentò su quelli precedenti.

quattro

Acquistava allora chiarezza un tema antico; il procedimento di accostare nella metafora termini diversi portava di per sé, nella scelta dei termini e nella loro relazione, ad un giudizio storico sul presente e ridefiniva l’antica dialettica marxiana Natura-Storia, a lungo investigata ai tempi del GRAU, con ampie discussioni teoriche, povere però di conseguenze operative.

Per me tale relazione aveva un’immagine chiara nella figura della “rovina”. Frequentavo e lavoravo con archeologi al restauro di monumenti antichi e leggevo la “rovina” come un manufatto che è stato riassorbito (in parte) nel continuum naturale, portando i segni di una doppia relazione: dal caotico naturale all’ordine storico e, da questo, di nuovo verso il caos della Natura. Da questo doppio rapporto prendeva le mosse la mia strada per rompere nel progetto l’inanimata coerenza dell’ordine geometrico che avevo fino allora manipolato, opponendovi ora una qualche rappresentazione del “disordine”.

L’allargamento della poetica della rovina così individuata (razionale e antiromantica) mi ha condotto in tempi successivi alla considerazione di altre figure retoriche. La figura storica del riuso di manufatti o luoghi può anch’essa essere considerata una figura retorica che accostando due significati diversi (due usi diversi e/o due momenti storici distinti), ne genera di nuovi: figure di stratificazione o di sovrapposizione, di rotazione degli strati, di palinsesto, di innesto o di assemblaggio tra eterogenei. Attraverso queste forme mi è sembrato di poter ripercorrere la storia stessa della Città, nell’intreccio tra prevedibile e inatteso, tra ordinato e casuale, tra effimero e permanente.

cinque

La lunga pratica di insegnamento della progettazione nelle Università Americane mi ha offerto nuovi interlocutori negli studenti, permettendomi di esercitare a distanza di decenni quel dialogo tra astrazioni e concreta opera progettuale che il GRAU aveva favorito nel periodo di formazione e  di cui, negli anni, ho sentito forte la mancanza.

Vedo ora che, nell’intero arco della mia attività, i significati dell’antico rapporto Natura-Storia si sono gradualmente fatti più concreti. In primo luogo, il concetto di continuum naturale tende a identificarsi con quello di paesaggio, nei suoi infiniti gradi di modificazione, dalla wilderness all’urbano. Paesaggio come sfondo e contesto, con il quale interagisce ogni nuovo evento architettonico.

In secondo luogo in un diverso versante di ricerca il rapporto Natura-Storia è modo soggettivo di percepire il mondo fisico e la sua simbolizzazione storica. Questo tende a ridefinire i termini archetipici elementari e la loro specificità nel presente: al significato di orizzontale e verticale, di piano di terra e orizzonte, di chiuso e aperto, di movimento e di orientamento. Entro queste coordinate l’evento architettonico organizza il preesistente e in quanto tale si pone come rottura storica se pure continua con esso. Non c’è differenza logica tra stratificazione geologica e stratificazione storica, non opposizione, come credevo in tempi lontani, ma continuità. Ambedue sono segni di eventi e come tali entrano allo stesso titolo nel progetto.

Oggi credo che solo  riconoscendo tale continuità, l’Architettura possa attingere al suo significato più vero e necessario, quello di continuo restauro e ri-creazione dell’ambiente umano.

 

(Scheda in preparazione)

 

http://www.giuseppemilani.it/

 

 

 

 
 


 

Schede:

- Alessandro Anselmi

- Paola Chiatante

- Gabriella Colucci

- Anna di Noto

- Pierluigi Eroli

- Federico Genovese

- Roberto Mariotti

- Massimo Martini

- Giuseppe Milani

- Francesco Montuori

- Patrizia Nicolosi

- Gianpietro Patrizi

- Franco Pierluisi

- Corrado Placidi

- Enzo Rosato (scultore)

- Matteo Mariotti